Nuove sfide e modelli di business innovativi per l’arte contemporanea

E’ ampio il dibattito sui modelli di business delle gallerie d’arte che stanno affrontando momenti complessi, anche a causa dell’emergenza coronavirus. Abbiamo chiacchierato con Francesco Badia, autore di monografie ed articoli su riviste nazionali ed internazionali, docente di Economia delle Aziende Culturali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Ferrara, che si occupa, tra l’altro, di Management di sistemi culturali
francesco badia

E’ ampio il dibattito sui modelli di business delle gallerie d’arte che stanno affrontando momenti complessi, anche a causa dell’emergenza coronavirus.

Abbiamo chiacchierato con Francesco Badia, autore di monografie ed articoli su riviste nazionali ed internazionali, docente di Economia delle Aziende Culturali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Ferrara, che si occupa, tra l’altro, di Management di sistemi culturali.

Le gallerie sono oggi, ma lo sono da tempo, una realtà decisamente in difficoltà. I motivi sembrano più strutturali che non congiunturali. Lei ha affrontato il tema della necessità di cambiare il business model delle gallerie d’arte già da tempo. Da esperto di management della cultura, può raccontarci cosa è cambiato in questi ultimi anni?

L’impressione è che, rispetto al sistema di analisi proposto in un lavoro pubblicato nel 2015 assieme a Valentina Schiano Lo Moriello[1], la situazione non sia molto cambiata. Si è infatti consolidato lo strapotere dei grandi colossi internazionali (da noi individuati come “gallerie di brand”), mentre le piccole e medie gallerie continuano a faticare nella ricerca di modelli di business economicamente sostenibili nel lungo periodo.

Dopo la crisi finanziaria del 2008, in molti hanno visto positivamente la chiusura di aziende “decotte” ormai inadeguate a stare sul mercato. Oggi in Italia esistono più gallerie d’arte che in Cina. La crisi a cui ci stiamo preparando può essere un altro momento per “fare pulizia” senza grandi rimpianti?

La chiusura di un’attività economica di qualunque tipo non può a mio giudizio essere mai salutata “senza rimpianti”, perché essa porta con sé il fallimento dei progetti, e in alcuni casi dei sogni, di uno o più imprenditori, oltre che la precarietà delle condizioni economiche per i dipendenti e collaboratori coinvolti nel progetto. Se questo è vero in generale, applicare tale ragionamento al settore culturale, espressione degli spazi più profondi di creatività ed emotività dell’essere umano, non può che essere ancora più preoccupante, per un potenziale impoverimento che non sarà solo a danno dei soggetti direttamente coinvolti, ma di tutta la società. Per questo, un’opportuna azione di supporto al settore culturale nel suo complesso, il quale rischia di essere uno dei più provati dalla crisi che verrà, dovrà essere al centro dell’agenda politica dei governi di tutto il mondo, a mio giudizio.

Sembra che le gallerie siano oggi frequentate da persone “sbagliate”: Art Enthusiast e pubblico da opening. Pochi collezionisti, direttori di musei o altri professionisti del mondo dell’arte. E’ possibile cominciare a rivolgersi a altri target?

Ritengo che l’ampliamento del pubblico non costituisca mai un problema nelle aziende culturali. Non esiste un pubblico sbagliato, perché un ampliamento del pubblico corrisponde ad un aumento della visibilità per una galleria. Riguardo allo specifico della sua questione, a me sembra che, in Italia in particolare, il comparto dell’arte contemporanea fatichi ad avere un dialogo proficuo con gli altri comparti del mondo dell’arte e della cultura, a volte per diffidenza di questi ultimi. Ragionare su come creare un sistema che lavori in maniera più organica e meno a compartimenti stagni credo dovrà essere una delle sfide su cui tutti, operatori, policy makers ed esperti, dovranno impegnarsi nel post emergenza Covid.

Pochi settori economici hanno un tasso di competitività come quello dell’arte contemporanea. E questo diventa un fattore critico quando l’offerta supera la domanda. Può essere arrivato il tempo per la filiera dell’arte di aggregazioni, cluster e reti di impresa?

Se il problema è quello di un disallineamento fra domanda ed offerta, la risposta direi che non è la rete o l’aggregazione, che sono strumenti che dovrebbero avere altre finalità, come la condivisione delle conoscenze, la strutturazione di politiche comunicative integrate, la riduzione di alcuni tipologie di costi fissi. Non che di queste cose non ci sia bisogno comunque, ma l’intervento sulla domanda richiede probabilmente anche un cambio culturale, che non può che essere favorito da un sistema formativo nei confronti dei giovani e divulgativo nei confronti del grande pubblico che possa avvicinare più persone all’arte contemporanea.

Qualche giorno fa, Carlo Fuortes, sovrintendente del Teatro dell’opera di Roma, ha lanciato l’idea di un Bond per l’arte e la cultura. Sarebbe pensabile che istituzioni culturali pubbliche e private emettessero obbligazioni?

Ho letto la proposta del sovrintendente Fuortes e quella, a cui lui fa esplicito riferimento, di Pierluigi Battista. Personalmente, trovo che la proposta di Fuortes possa scontrarsi con il problema che le istituzioni che ne beneficerebbero sarebbero quelle maggiormente in grado di attirare pubblico, le quali sono probabilmente le stesse che, in un qualche modo e pur non senza difficoltà, saranno comunque capaci di sopravvivere alla crisi.

Ciò che ci attende rischia invece di mettere in pericolo la tenuta di tutto quel mondo di medie e piccole realtà del settore culturale e creativo, che sono sostenute dal lavoro, a volte quasi a titolo di volontariato, di tanti giovani professionisti del mondo dell’arte e della cultura.

Penso che la sfida più importante che attende il mondo dell’arte e della cultura per il prossimo futuro sia quello di ripensare completamente il sistema di finanziamento pubblico e privato, individuando criteri trasparenti e meritocratici di sovvenzione che, riconoscendo che “motivazioni e i benefici che legano la collettività all’arte e alla cultura non sono mai economici” (citando Fuortes), diano il giusto riconoscimento a quelle realtà e a quei professionisti che si impegnano per una promozione della socialità che non dà un rendiconto economico a breve termine, ma che ci consente un’evoluzione collettiva verso una società più giusta, aperta e rispettosa, condizioni che nel lungo periodo sono anche le basi per una crescita economica duratura.

 

[1] Badia F., Schiano Lo Moriello V., (2015), “Evolution of the business models for contemporary art galleries. Current situation and future challenges”, in IFKAD 2015, Culture, Innovation and Entrepreneurship: Connecting the Knowledge Dots, Bari (Italia), 10-12 giugno 2015, London: Arts for Business, ISBN 9788896687079, pp. 1567-1581.[:]

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