Gallerie oltre la crisi: flessibilità, adattamento, progettualità, ascolto. Parola di value designer

Daniela è una value designer con oltre 15 anni di esperienza come consulente professionale in strategie di comunicazione e gestione delle relazioni con gli stakeholder. Nel 2018 ha fondato Makaeaplan.io, uno studio di consulenza strategica con sede a Milano
Daniela Bavuso

Daniela è una value designer con oltre 15 anni di esperienza come consulente professionale in strategie di comunicazione e gestione delle relazioni con gli stakeholder. Nel 2018 ha fondato Makaeaplan.io, uno studio di consulenza strategica con sede a Milano. È fortemente impegnata in progetti che incidono sulla vita delle persone e crede che le sfide globali e i nuovi valori sociali stiano cambiando profondamente il modo in cui le organizzazioni lavorano e producono il loro reddito. Per questo motivo, aiuta le organizzazioni a scoprire la loro architettura del valore, a riprogettare la catena del valore e il modello di business e a pianificare un’efficace strategia di business e comunicazione basata sullo scopo di far crescere il business, trovando un modo per creare un impatto rilevante. I clienti e i partner commerciali di Makeaplan sono aziende italiane e internazionali, startup, ONG, associazioni, gruppi di interesse, istituzioni e personalità pubblicamente esposte. Daniela è coinvolta in molti programmi educativi promossi da acceleratori, università, piattaforme online e aziende italiane e francesi.

Daniela Bavuso

Come è nata l’idea del blog?

Quello che oggi è un blog prima era una cartella personale sul mio desktop, il mio diario segreto degli insights e dei consigli utili che come professionista ho raccolto per un po’ di mesi, anche per non perdere l’abitudine di informarmi, approfondire, studiare. Guardandolo nel complesso poi mi sono resa conto che molti contenuti rispondevano bene a le domande dei clienti e che quindi poteva essere un punto di riferimento per rispondere alle loro domande che richiedono approccio pratico. Ho scoperto che i miei lettori adorano capire la ratio sulle quale uno strategist prende delle scelte e le applica ai loro progetti e cosí l’ho messo online..

Che tipo di supporto può essere dato a un’organizzazione in momenti di emergenza come quello che stiamo vivendo?

Di orientamento alla gestione della crisi e al riposizionamento, secondo il modello di business di ognuno. Prima regola, deve entrare nella nostra cultura di impresa l’idea che analizzare gli ambiti di vulnerabilità di un progetto e della sua comunicazione e lavorare a scenari di cambiamento e crisi è una necessità di tutti ed è una capacità da esercitare con continuità, anche quando le previsioni sono ottimistiche.

A crisi aperta, supportiamo l’analisi dei fattori scatenanti la  gestione delle le varie fase della crisi anche in termini di comunicazione che deve essere univoca sullo stato delle attività che rimangono attive e dei canali in uso. In una fase successiva è necessario raccogliere insights e individuare opportunità di crescita a partire da quello che in questa crisi ci ha fatto sentire vulnerabili, per capire in che direzione lavorare per esserlo di meno domani, senza dimenticare il primo fattore che ci traina fuori dalla crisi: le relazioni con gli stakeholder costanti.

Quando conta per l’organizzazione la flessibilità?

Sempre tanto, ma nella crisi è tutto, soprattutto in termini di rimodulabilità della struttura organizzativa e quindi dei costi. Flessibilità è anche adattamento e progettualità che consegue all’ ascolto (da intendersi non come “fase”, ma piuttosto come processo continuo), che a sua volta richiede l’apertura e il presidio di canali d’ascolto, non solo top down, dove noi ascoltiamo i target, ma ascolto nelle conversazioni tra pari (tra gli utenti) con costanza.

In un’epoca in cui si tende a essere imprese globali, ha ancora senso per le gallerie lavorare in una dimensione locale?

Il radicamento locale di un’attività come quella della galleria continua a conferire riconoscibilità, appartenenza culturale ed esclusività, è un errore strategico privarsene, mentre la capacità di comunicare oltre la propria dimensione territoriale con lo stesso impatto, tramite i mezzi della società globalizzata, aggiunge valore relazionale, respiro culturale e intellettuale e rende univocamente riconoscibile a livello globale l’identità del brand galleria stesso, ovvero quel mix di  elementi di personalità intrinseci che definiscono la texture e la profondità del dialogo del gallerista con i suoi follower sono in parte riflesso delle scelte del gallerista.

Per lavorare glocal le gallerie oggi possono integrare elementi di esperienza e comunicazione locale e globale tramite una costumer journey multi canale creata ad hoc, trasferendo su nuove dimensioni le dinamiche relazionali, e concentrandosi sull’obiettivo di alimentare il processo di creazione di affezione tra estimatori/compratori e opere (ad esempio contestualizzando l’opera nell’attualità, aumentandone il patrimonio informativo e creando canali di contatto tra artista e pubblico). Tutto questo rimarcando però il valore unico dell’opera, l’accessibilità limitata, la delicatezza, la non riproducibilità, il tempo che richiede occuparsene, tutti fattori che la rendono “sacra” e non assimilabile ai beni che costellano la dimensione globalizzata se non per la condivisione di qualche canale di comunicazione.

Finito il lockdown, prevedi un revenge spending che possa interessare anche l’arte o piuttosto uno scenario in cui una nuova crisi darà ulteriore contrazione degli investimenti? Cosa si devono aspettare le gallerie?

In generale penso che a fine lock down beneficeranno del revenge spending quei beni e quelle esperienze che rappresentano le nostre passioni e i nostro vezzi bruscamente interrotti, mentre del revenge investing beneficeranno le imprese e i servizi che  si sono dimostrati essenziali per il benessere umano e per la continuità delle attività economiche o per il contenimento delle perdite.

La durata del lockdown di certo inciderà, è legittimo chiedersi, se dovesse protrarsi per molto, se alcuni potenziali acquirenti che comprano per investimento, magari reduci da qualche difficolta finanziaria, potrebbero per un po’ evitare investimenti caratterizzati da illiquidità o alti costi dii gestione. Detto questo, credo che l’investimento in arte abbia un movente passionale trainante per la maggior parte.

La svolta digitale sta cambiando il gioco nelle industrie creative di oggi: per primo Amazon ha rivoluzionato il commercio di libri,  iTunes e Spotify hanno fatto un salto nel settore della musica,  Netflix e simili stanno rafforzando ulteriori cambiamenti nel nostro comportamento nell’uso dei media. Alla luce dei fondamentali cambiamenti sociali, economici, culturali e tecnologici introdotti dall’era digitale, non sembra ostinato continuare a portare avanti un modello di business di più di cinquant’anni fa?

Come il lusso, anche l’arte sfugge alle dinamiche di marketing tipiche che governano il mondo globalizzato e quindi ai modelli di business più comuni, inclusi quelli tipici delle industrie creative citate, che evidentemente non possono incasellare l’arte senza provocare come conseguenza una perdita di appeal. Questo perché mentre l’industria va a caccia del proprio target essendo pronta a tutto, nell’arte è l’appassionato che cerca l’opera essendo pronto a tutto.

Detto questo, quando avviene il cambiamento a livello culturale e sociale e questo porta con sé nuovi strumenti si può esserne parte o subirlo: io credo che la galleria possa integrare il proprio modello con prospettiva di vantaggi competitivi, aprendosi a nuovi strumenti, acquisendo nuovo mindset e nuove competenze per facilitare l’appassionato a “sentire” l’opera e il non appassionato a scoprire una passione e quindi una dimensione di sé. Ma questo comporta per il gallerista anche il rimanere consapevoli di quali valori all’interno del modello di business non possono essere sacrificati per continuare a mantenere intorno all’opera un velo di irraggiungibilità e intorno all’atto della fruizione dal vivo un momento ineliminabile.

C’è una nuova generazione di collezionisti d’arte esperti di e-commerce, che non avranno o già non hanno più necessariamente bisogno di gallerie per acquistare arte. Come intercettare millennials?

I millennials fruiscono in modo alternativo qualsiasi cosa, soprattutto fruiscono le opere e tutto ciò che richiede un primo approccio di tipo visivo in manciate di secondi e tramite Instagram e l’online. Hanno tanti stimoli e poca pazienza, sono particolarmente attratti dalle immagini di alta qualità e 3D e dalle online experiences. Ma sono anche lettori onnivori di contenuti e interviste preferibilmente in formato video o podcast, quei formati che si inseriscono nel loro tempo libero e che riescono a fruire anche mentre fanno altro. Poi vogliono “condividere”: non vanno al museo o in galleria ma la volta che ci vanno vogliono fare le foto e metterle sui social, come dire: “anche questa è una sfumatura di me”.

Ci sono anche millennials più maturi (sui 30 anni)  maggiormente disposti a prendere parte in esperienze di persona. Di questi è certo che apprezzano l’arte, la cultura come modo di investire su sé stessi, facendo cadere sistematicamente il desiderio su qualcosa con cui è possibile creare un legame profondo e che li nutre come persone. Per questo bisogna parlare loro cercando di appagare il loro bisogno di sentirsi responsabili, raffinati, intenditori e portatori esclusivi di un certo tipo di sensibilità.

Questo ci deve dire che è importante lavorare sulla customer journey per migliorare l’accessibilità della galleria e i punti di incontro tra collezionista e opera. I canali digitali diventano in questa ottica un canale ulteriore di accesso e abbattimento delle barriere che permette di raccontare di più (storie delle opere e degli autori), su scala geografica più vasta, senza limiti di tempo, aumentando il dibattito tra estimatori e collezionisti e le opportunità per gli emergenti di farsi conoscere e raccontarsi. Non sono da intendersi quindi una “minaccia” ad un vecchio format, che a mio avviso conserva il suo fascino, ma un mezzo per amplificare l’esperienza. E la galleria fisica rimane il centro di questo viaggio con un ruolo rinnovato: quello in cui massimizzare l’elemento esperienziale, a volte luogo del confronto intimo ed esclusivo dove apprezzare la verità materica dell’opera e dove finalmente testare il feeling che si può instaurare con essa  e  altre dove incontrare dal vivo una community di estimatori o gli artisti.

Gli strumenti di analisi messi a disposizione da molte piattaforme tecnologiche, poi, sono amici del gallerista laddove abbia interesse a rilevare informazioni su quanto determinate selezioni e scelte siano apprezzate dalla sua community e da determinati segmenti in essa, anche anagrafici)  e su come questa matura la sua affezione alla galleria, all’artista e all’opera.

Non un modello a scapito di un altro, quindi, ma integrazione dei canali a favore della massima espressione di un valore che la società percepisce profondamente da secoli.[:]

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