Benessere e pandemia Covid-19: un’unione possibile?

“Quando un paziente entra nel mio studio il mio obiettivo é il suo ben-essere” ci rivela la dott.ssa Scatozza ”Il mio lavoro è di riequilibrio e non solo di cura e il mio obiettivo di salute è orientato alla persona. Parallelamente svolgo la mia attività di consulente di metodologia di ricerca clinica e di comunicazione scientifica.
Diana Scatozza

Incontrare un medico che, nel corso della sua più che trentennale esperienza professionale, si sia dedicato alla studio di diverse discipline mediche, acquisendo diverse specializzazioni non é cosa rara, incontrarne uno che sia contemporaneamente Farmacologo Clinico, Specialista in Scienza dell’Alimentazione e Professional Counselor lo è sicuramente di più, perché le tre discipline sembrano apparentemente non avere legami.

Incontrare la dott.ssa Diana Scatozza ci ha consentito di cogliere, in realtà, il denominatore comune della sua attività: la persona nel suo equilibrio fisico-psichico.

diana scatozza

“Quando un paziente entra nel mio studio il mio obiettivo é il suo ben-essere” ci rivela la dott.ssa Scatozza ”Il mio lavoro è di riequilibrio e non solo di cura e il mio obiettivo di salute è orientato alla persona. Parallelamente svolgo la mia attività di consulente di metodologia di ricerca clinica e di comunicazione scientifica.

La nostra prima domanda, resa urgente dalla tremenda pandemia che ci attanaglia, si rivolge innanzitutto alla consulente di metodologia clinica: perché ci vuole tanto tempo per rendere disponibile il vaccino anti COVID-19? Come si svolgono le procedure AIFA per l’autorizzazione?

Vede, normalmente la fase di sperimentazione dura anni e prevede una fase preclinica al termine della quale le autorità sanitarie, se ritengono i dati adeguati, danno l’autorizzazione alla sperimentazione sull’uomo. La sperimentazione sull’uomo attraversa 3 fasi, prima che le autorità sanitarie concedano l’Autorizzazione a immettere il prodotto in commercio, quindi disponibile.

Nella prima fase nell’uomo, detta del  ‘volontario sano’, si valuta la tollerabilità di breve  termine e la farmacocinetica – cioè il comportamento del vaccino all’interno del corpo umano. Nella seconda fase il farmaco, in questo caso il vaccino, viene sperimentato in dosi diverse in un numero ridotto di soggetti per valutarne la tollerabilità e, nel caso del vaccino, la capacità di far produrre anticorpi al sistema immunitario. Raggiunto l’obiettivo di identificare il dosaggio che ottenga la massima produzione di anticorpi con la migliore tollerabilità si passa alla fase successiva che sperimenta su larga scala i risultati acquisiti e solo successivamente – e siamo nella fase finale – il farmaco o il vaccino viene presentato alle autorità nazionale o sovranazionale. Un processo che può impiegare anche 10 anni!

In questo caso in che modo si sono accorciati i tempi?

In questo specialissimo caso si sono innanzitutto sviluppati più vaccini in parallelo, grazie agli investimenti contemporanei di molte aziende. Inoltre, è stata seguita una procedura di analisi dei dati in corso d’opera (rolling review) e non in sequenza. Ciò equivale a dire che, mentre normalmente tutti i dati acquisiti vengono dapprima raccolti in un dossier che viene inviato all’autorità solo alla fine delle sperimentazioni, in questo caso i dati venivano inviati alle autorità mano a mano che si rendevano disponibili, senza attendere la fine delle 3 fasi di sperimentazione.

Moderna, Biontech Pfizer, Novavax, Astrazeneca, Sputnik per citarne solo alcuni vaccini: in cosa differiscono?

Moderna e Pfizer hanno usato una tecnica nuova legata all’m-RNA o RNA messaggero, quella parte cioè del codice genetico che ha al proprio interno la base che fornisce l’imprinting per produrre la proteina spike di cui il virus si serve per agganciare le cellule umane ed entrarci per replicarsi.

Può spiegarci  come funziona?

Viene isolata dal virus la parte del codice genetico (m-RNA) che funziona da ‘stampo’ per la produzione della proteina Spike.

Una volta isolato, l’m-RNA è riprodotto in laboratorio e, infine, preparato per essere inoculato. Per facilitare l’ingresso nelle cellule umane, l’RNA messaggero del vaccino è racchiuso in piccolissime vescicole di grasso (liposomi). Queste vescicole penetrano nelle cellule del corpo umano, le cellule producono la proteina spike che attiverà la risposta immunitaria e la produzione di anticorpi specifici.

Ma se ci viene inoculata una parte del virus come mai non ci infettiamo?

Perché in realtà viene isolata la parte di codice genetico che ha solo l’informazione della proteina spike, non tutto il virus.

Abbiamo parlato solo di Moderna e Pfizer-Biontech, come funzionano gli altri vaccini?

Gli altri vaccini utilizzano una tecnica già nota. Viene utilizzato un virus inattivato, che ha perso cioè la capacità di indurre malattia. In questo caso l’adenovirus, il virus del comune raffreddore. Viene tolta all’adenovirus la capacità infettiva, viene inserita la proteina Spike del coronavirus e l’adenovirus viene inoculato nell’uomo. Il sistema immunitario reagirà producendo anticorpi contro la proteina spike.

Come avviene la risposta immunitaria al vaccino?

La risposta immunitaria dipende dalla caratteristica della proteina spike, in relazione al sistema immunitario del soggetto che riceve il vaccino.

Una volta acquisita l’immunità la durata é di almeno 6-8 mesi. Non abbiamo dati precisi al riguardo perché, come detto, la sperimentazione é relativamente recente e mancano ancora i dati di follow up, cioè i dati dopo mesi e anni dalla inoculazione.

Le aziende continuano a tenere sotto controllo i soggetti che hanno preso parte alle sperimentazioni per acquisire maggiori informazioni sull’aspetto relativo alla durata dell’immunità e verificare eventuali reazioni ritardate al vaccino.

Al momento, le uniche situazioni che richiedono una particolare attenzione sono quelle dei pazienti immunodepressi o con forti allergie.

Se le aziende ad oggi produttrici del vaccino non riescono, come pare, a soddisfare  velocemente il fabbisogno, perché altre aziende farmaceutiche non si rendono disponibili alla produzione?

Esiste, naturalmente, una questione legata ai brevetti, ma quand’anche la questione fosse aggirabile, dobbiamo tenere presente che questo processo di produzione delle parti del virus, l’m-RNA o la proteina spike, che abbiamo cercato di spiegare  in modo semplice, é in realtà molto delicato e complesso, perché deve essere strettamente monitorato e mantenuto in condizioni costanti. Non tutte le industrie farmaceutiche esistenti producono biotecnologie e l’eventuale trasferimento tra aziende ad oggi é molto difficile.

Ma in una situazione quale quella attuale di scarsità di vaccino, si potrà ovviare inoculando  dosi di vaccini analoghi? As esempio prima dose Pfizer e seconda Moderna o viceversa?

No, al momento questa ipotesi non é stata testata. I vaccini usano la medesima tecnologia, è vero, ma i processi di produzione sono differenti e non sappiamo come potrebbero interagire.

E la terapia monoclonale, è una possibile alternativa alla vaccinazione?

No. La terapia monoclonale è, appunto, una terapia che può frenare la reazione anomala al COVID-19 del nostro sistema immunitario, detta tempesta citochinica. In sostanza, avviene che il nostro sistema immunitario in presenza del virus produce in modo spropositato  sostanze infiammatorie (le citochine) che, in questo frangente, non sono in grado di debellare l’infezione, ma generano, invece, uno stato infiammatorio importante che danneggia la struttura dei polmoni e di altri organi vitali, fino a deteriorarla.

La terapia monoclonale prevede che vengano iniettati anticorpi prodotti in laboratorio da cellule particolari (linfociti) che producono sempre lo stesso anticorpo specifico per le sostanze infiammatorie responsabili della tempesta, ma il sistema immunitario non viene  stimolato a produrre anticorpi in modo autonomo. Interrompendo la terapia, quindi, se ne  interrompono anche gli effetti benefici. Per non parlare dei costi elevatissimi!

In attesa della vaccinazione quindi, l’unica forma di prevenzione, oltre al famoso distanziamento sociale, sono la sanificazione delle mani e l’utilizzo della mascherina. A proposito di queste ultime, facciamo chiarezza: mascherine FFP2, FFP3 o chirurgiche?

Dipende dal grado di protezione che vogliamo raggiungere. Le chirurgiche non aderiscono ai contorni del viso, per questo la protezione per chi le indossa è molto limitata; invece, coprendo naso e bocca, servono a impedire la fuoriuscita di secrezioni respiratorie potenzialmente infettanti verso l’ambiente esterno, quindi proteggono gli altri. Le FFP proteggono sia chi le indossa sia gli altri e sono suddivise in tre classi di protezione in funzione dell’efficacia filtrante. Le FFP1 filtrano poco, le FFP2 filtrano almeno il 94% e le FFP3 almeno il 99% e sono destinate al personale sanitario. Quindi, le migliori sono le FFP2.

Si vede spesso che vengono indossate addirittura due mascherine una sull’altra, quella di protezione e una seconda magari di stoffa fantasia, esteticamente più gradevole…..

E’ un’abitudine che si é diffusa, ma non c’é necessità alcuna di utilizzare la doppia mascherina.

Teniamo presente che le mascherine in stoffa, o di altri materiali, forniscono una limitatissima protezione. Se dunque vogliamo rendere più gradevole l’aspetto della mascherina ben vengano le doppie mascherine, non per una doppia protezione, sia chiaro, unicamente per una questione estetica.

E il Taffix – lo spray israeliano anti COVID-19 – è potenzialmente valido?

Lo spray utilizza una tecnica banale: contiene una sostanza che crea un film protettivo sulla mucosa della cavità nasale. Lo stesso principio degli spray per proteggere dalle allergie ai pollini, per esempio. In questo caso, però, uno dei componenti dello spray è l’acido citrico che abbassa il pH delle mucose, rendendo più complicata la vita al virus.

L’acidità, infatti, altera le proteine, quindi anche la famosa proteina Spike. Si tratta quindi ancora una volta di una barriera fisica, non della panacea, ma insieme ad altri presidi di prevenzione può funzionare!

E la dieta può aiutare?

Certamente! Possiamo stimolare il nostro sistema immunitario attraverso l’apporto giornaliero di vitamina D.

Gli alimenti che contengono naturalmente  questa vitamina sono, ad esempio, il tuorlo d’uovo, le aringhe, il salmone, il pesce spada, gli sgombri, le acciughe, e, in generale, il pesce azzurro, il latte e i latticini, gli olii.

Black slate table with product rich in vitamin D and omega 3. Written word vitamin D by white chalk

Non a caso nei paesi scandinavi, che consumano elevate quantità di aringhe, salmoni e sgombri con la conseguente presenza di alti livelli di vitamina D nel sangue, è stata rilevata un’incidenza di casi di COVID-19 relativamente inferiore agli altri paesi Europei.

L’osservazione di questo dato, inizialmente proposta da un gruppo di studiosi di Torino, è stata poi variamente ripresa e sviluppata negli Stati Uniti.

Purtroppo, la vitamina D si trova negli alimenti grassi, motivo per il quale spesso questi cibi non sono presenti sulle tavole italiane.

Non a caso, nella mia esperienza di nutrizionista, ho riscontrato che nel 98% della popolazione dei miei pazienti la vitamina D è scarsamente presente.

Teniamo presente però che solo il 20% del nostro fabbisogno di vitamina D deriva dall’alimentazione mentre l’80% dall’esposizione ai raggi solari.

In attesa dei bagni di sole durante l’estate, un buon integratore di vitamina D è altamente consigliato!

Si é parlato di una maggior incidenza del COVID-19 nelle aree maggiormente inquinate, che correlazione esiste?

Tutte le particelle che inaliamo possono rallentare la motilità delle ciglia che rivestono le  mucose delle prime vie respiratorie, rendendole più facilmente aggredibili dal virus. E’ quanto accade, ad esempio, ai fumatori e, naturalmente, alle popolazioni che vivono in aree con alto inquinamento da polveri sottili.

Ansia, stress, disturbi alimentari: come si relazionano con la pandemia da COVID -19?

La mia esperienza di nutrizionista e counselor mi porta a dire che durante il periodo del  lockdown si sono slatentizzati disturbi alimentari di tipo restrittivo (anoressia) e bulimico, soprattutto negli adolescenti. Stare in casa con i genitori ha acuito o reso evidenti situazioni relazionali che, precedentemente, venivano tenute sotto controllo grazie alla limitata convivenza. Sugli adulti abbiamo notato un effetto diverso. Come reazione al lungo periodo di astinenza sociale durante il primo inaspettato e improvviso lockdown, si sono moltiplicate le occasioni sociali nel periodo giugno-settembre.

Nel secondo lockdown le persone hanno sofferto maggiormente e hanno quindi fatto ricorso al cibo come gratificazione. Bisogna considerare che lavorare da casa ha per molti significato dilatare i tempi della prestazione lavorativa riducendo lo spazio privato.

Si è ampliata l’offerta di cibo da asporto, passate le orge di farine e lieviti per il pane fatto in casa, sempre più spesso abbiamo fatto ricorso al delivery e anche il consumo di alcolici è aumentato. Alla fine di una giornata di lavoro, senza altre possibilità di svago, il ricorso all’aperitivo, sia pure casalingo, è stato sempre più frequente, con le conseguenze che potete immaginare in termini di accumulo calorico!

E tuttavia, paradossalmente, mi viene riferito quasi un timore alla ripresa della vita a ritmi normali. Si sente l’esigenza di una maggiore libertà di movimento e di riprendere la propria vita, certo, ma non con i ritmi forsennati di prima. Rallentare ha aperto la porta su nuovi modi di star bene. Non proprio un elogio della lentezza… ma ci siamo molto vicini![:]

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